+ 14,7%, + 34%, + 25,8%, + 10%, + 11%.
Di cosa si tratta? Dei rialzi di borsa, dal mese di ottobre alla giornata di ieri, di alcuni indici: numeri difficilmente spiegabili in situazioni di crisi economica (o di prospettive di crisi), a meno che non ci si trovi di fronte ad una follia collettiva o ad un mondo capovolto.
Le motivazioni che hanno spinto (e stanno spingendo, al di là di “vuoti d’aria” come quello di ieri, su cui avremo modo di tornare) a simili rimbalzi sono più d’uno.
In primis il crollo subito l’anno scorso a seguito dei rialzi dei tassi. Crolli che, come noto, hanno colpito un po’ tutte le asset classes: ancora più eclatante, a ben vedere, quello, per esempio, subito dal mercato obbligazionario, con perdite che in alcuni casi (vd i nostri BTP decennali) hanno superato il 20%. La storia ci insegna che, dopo una grande caduta, di solito si assiste ad un recupero, se non altro per il desiderio di lasciarsi alle spalle i “brutti ricordi”. Nel caso specifico, peraltro, le quotazioni avevano raggiunto valori piuttosto bassi, con multipli ben inferiori alla media degli ultimi anni: logica vuole che, in questi casi, si torni verso una “normalizzazione” dei prezzi, cosa che è prontamente avvenuta.
Ma, evidentemente, non basta. Le prospettive di crescita, che, giorno dopo giorno, trovano conferma nei dati macro (occupazione che tiene, consumi in alcuni casi addirittura in aumento, PIL rivisto al rialzo in molti Paesi e Aree geografiche), ci dicono che parlare di recessione è irrealistico (“nessun Paese europeo sarà in recessione nel 2023” ha detto non più tardi di ieri la Lagarde in un’intervista). E un’economia che cresce (o, per lo meno, non cala) solitamente significa utili in crescita o, quanto meno, stabili.
E, ancora, il calo dell’inflazione consente, come ovvio, maggiori risparmi per le famiglie e minori costi per le aziende.
Questa equazione matematica (minori uscite=maggior risparmio) introduce quello che forse è il fattore più importante per comprendere i rialzi degli ultimi 4-5 mesi.
Sappiamo che, negli ultimi anni, la vera “benzina” per i mercati è stata la liquidità, di solito espressa con l’aggregato M2, che ne misura quantità e, soprattutto, “velocità di trasmissione”. Durante la crisi pandemica, ma anche negli anni immediatamente precedenti, le Banche Centrali, grazie alle loro note politiche espansive, hanno letteralmente fatto “volare” la quantità di denaro in circolazione, che, infatti, ha raggiunto cifre incredibili. Una liquidità che, in assenza di rendimento offerto dai titoli obbligazionari (una percentuale impressionante aveva rendimenti negativi), cercava “rendimento” in classi di rischio ben superiori, come, appunto, i mercati azionari. Con l’avvio delle politiche restrittive, si è assistito al processo contrario: diminuzione della liquidità, fuga dal mercato azionario, rialzo dei tassi, caduta dei corsi obbligazionari e conseguenze rialzo dei rendimenti (il rendimento di un titolo obbligazionario è inversamente proporzionale al suo prezzo). Da ottobre, però, si assiste nuovamente al rialzo della liquidità: si calcola che in questi mesi sia aumentata di ben $ 6.000 MD.
Per comprendere un fenomeno del genere dobbiamo allargare lo sguardo, non limitandolo unicamente alle economie occidentali. Infatti, se è vero che la FED e, in minor misura, per il momento, la BCE (per non parlare di altre istituzioni, come la Bank of England o quella del Canada), hanno inasprito la loro politica monetaria (otre al rialzo dei tassi, pesa, e non poco, l’alleggerimento dei loro bilanci, vale a dire la vendita dei titoli precedentemente comprati a mani basse), contribuendo, quindi, alla drastica riduzione della liquidità, in altri Paesi sta succedendo esattamente l’opposto. Clamoroso il caso della Cina, dove a gennaio l’aggregato M2 è cresciuto del 12,6% (minore la crescita in Giappone).
Ma c’è anche “un’altra liquidità”, che ha il vantaggio di entrare in circolo ancora più rapidamente: quella detenuta dalle società di Asset Management (i cosi detti “investitori globali”). Secondo uno studio di Bank of America, la liquidità totale (cash) “ferma” nei portafogli aveva toccato, ad inizio ottobre, il 6,3% delle masse in gestione, il massimo dall’aprile 2001. A febbraio la percentuale è scesa al 5,2%, comunque ancora sopra la media storica. Per cui il “serbatoio” contiene ancora benzina.
Si tratta ora di capire, tornando ai “fondamentali”, se i “multipli” sono arrivati o meno. Di certo hanno recuperato buona parte del gap: a ottobre “giravano”, parlando di S&P, a 16, quando la media degli ultimi 10 anni era 18,8. Oggi siamo già a 18,5, quindi molto vicini. Ma è anche vero che le serie storiche sono fatte per essere aggiornate….
Tornando alle dichiarazioni della Lagarde in relazione all’allontanamento del rischio di recessione per l’Europa, nelle sue parole si può leggere un’ulteriore conferma che la BCE tirerà dritta sul rialzo dei tassi (anche perché, sempre ieri, sono usciti dati macro piuttosto positivi sulla situazione economica di molti Paesi europei). Si da quindi per scontato un prossimo aumento dello 0,50%. Cosa, come normale, poco gradita ai mercati: da qui i ribassi, diffusi, di ieri.
Dopo i ribassi di ieri, con Wall Street in calo, mediamente, del 2%, questa mattina anche le borse asiatiche danno segnali di debolezza (peraltro non preoccupante): a Tokyo il Nikkei scende dell’1,34%, mentre sia Shanghai che Hong Kong limitano le perdite allo 0,50% circa.
Futures a 2 velocità: leggermente positivi oltre Oceano (in rialzo di circa 0,20%), deboli in Europa (Eurostoxx – 0,30%).
Sul fronte delle materie prime, colpisce il forte calo del gas naturale americano (- 4,44%), che scende sotto la soglia dei $ 2 (1,986).
Petrolio leggermente debole (WTI $ 76,02, – 0,54%).
Gas naturale europeo € 48,10, – 2,14%.
Oro stabile a $ 1.844,90.
Ieri impennata dello spread, che questa mattina riparte da 192,6 bp. Rendimento del BTP vicino ai livelli di inizio anno (4,45%).
Bund a 2,53%.
In rialzo anche il rendimento del treasury Usa, vicino al 4% (3,95%, + 12 bp rispetto a ieri).
$ in rafforzamento, con l’€/$ a 1,0658.
Scivola il bitcoin, tornato sulle “montagne russe”: questa mattina lo troviamo a $ 23.985, dopo che lunedì aveva superato i $ 25.000.
Ps: a New York, lo sappiamo, tutto è possibile. Anche che, in un laghetto di Brooklyn, venga “pescato” un alligatore di dimensioni ben superiore al metro. Difficile pensare che sia arrivato lì da solo, partendo da una laguna della Florida. Quello che stupisce, evidentemente, è la sua capacità di adattamento, visto che il clima di New York, per quanto sia cambiato, non si può definire tropicale. Pare, comunque, che a Prospect Park (così si chiama il parco dove è stato trovato) la balneazione fosse vietata….